Team di lavoro. Guerra e pace: vera o apparente

13 Dicembre 2019 11:10
12 min.

Se è chiaro per tutti che un clima di “guerra aperta” in un team di lavoro probabilmente è segno di forti problematiche, non è altrettanto palese che anche “troppa pace” in un team possa nascondere pericolose insidie.

Croce e delizia di molti, il lavoro di squadra è ormai una componente imprescindibile nelle aziende: con l’evoluzione tecnologica e l’aumento della complessità globale è sempre più indispensabile saper lavorare efficacemente in team.
Se da una parte non ci sono dubbi di quanto valore aggiunto possa portare lavorare in teamAndrew Carnagie lo definiva “il carburante che permette alle persone comuni di raggiungere risultati non comuni” – dall’altra parte è altrettanto indubbio che un team che non funziona non solo non porta risultati, ma va a incidere negativamente sulla motivazione e sulla performance individuale delle persone coinvolte.

Quali sono le problematiche più ricorrenti che possono presentarsi in un team di lavoro?
Una sintesi efficace delle disfunzioni di un team è presentata nel modello di Patrick Lencioni, “La guerra nel team”, dove le cinque disfunzioni sono rappresentate in forma piramidale, poiché inter-correlate: la presenza di anche una sola di queste problematiche rischia di compromettere i risultati del team di lavoro.

Alla base di tutto c’è l’assenza di fiducia, la disfunzione più grave: il non fidarsi degli altri membri del team porta a essere guardinghi, a non ammettere le proprie aree di debolezza, a non cercare il supporto degli altri e ad evitare le occasioni di confronto. Si sprecano enormi quantità di tempo ed energia per gestire i propri comportamenti e le interazioni all’interno del gruppo, energie e tempo che vengono tolte al lavoro e al raggiungimento degli obiettivi. È sufficiente questa disfunzione per mandare completamente all’aria l’efficacia di un team.
La mancanza di fiducia, paradossalmente, può creare una sorta di “pace artificiale”: si tende a evitare di esporsi e di confrontarsi con gli altri. Ed ecco la seconda disfunzione: la paura del conflitto. Manca il conflitto produttivo, vengono meno quelle sane discussioni nelle quali si affrontano i problemi e le criticità, non si prende mai una decisione. Non si discute apertamente ma si passa ad attacchi personali sommersi. Quindi “tanta pace” nel team in realtà segnala una disfunzione grave quanto una “guerra aperta”.
La mancanza di confronto si traduce in una mancanza di scelte e questo crea ambiguità nel team sulla direzione e sulle priorità: in questo modo i membri del team si sentono “autorizzati” a non assumersi impegni. La mancanza di impegno personale porta al “sottrarsi alla responsabilità”: sia dalle proprie, sia dal richiamare gli altri membri del team alle loro responsabilità. D’altra parte se io in prima persona non mi impegno….come faccio a richiamare gli altri all’impegno? La discesa verso la mediocrità è praticamente inevitabile. Da tutto questo ne consegue la disattenzione ai risultati del team, i cui obiettivi vengono visti come non importanti o prioritari; i membri del team si dirigono verso altri obiettivi: di carriera, personali, di valorizzazione dei propri incarichi o di quelli della funzione di appartenenza.

Situazioni di pace apparente a volte sono legate al “Groupthinking”, termine che definisce quel fenomeno che si verifica quando in un gruppo tutti cominciano a pensare allo stesso modo e nessuno si dice in disaccordo o si arrischia a esprimere una posizione critica rispetto a quella prevalente.

Il groupthinking non nasce necessariamente dalla mancanza di fiducia, anzi, può verificarsi quando le persone ripongono una fede illimitata in un leader talentuoso e sono disposti a seguirlo acriticamente…motivo per cui Winston Churchill aveva creato un reparto speciale il cui compito era di riferirgli tutte le notizie peggiori (gli altri potevano avere soggezione/ammirazione nei suoi confronti, questo team no!).

In altri casi la fiducia illimitata è nelle capacità e nei “poteri speciali” che il gruppo pensa di avere, non attribuendosi nessun elemento di vulnerabilità…ed anche questo caso il team si pone in una posizione di pericolosa cecità.

Altre volte sono i leader che per rafforzare il proprio ego sopprimono il dissenso dei proprio collaboratori: le persone magari non smettono di pensare in modo critico ma evitano di dire apertamente quello che pensano. Oppure i dipendenti per ottenere riconoscimenti dai propri capi si allineano completamente alle posizioni di questi. Tutti questi “Signor Sì” portano sicuramente a sessioni di lavoro tranquille, ma impediscono la crescita delle persone, inibiscono l’innovazione e il cambiamento, fino a portare – nei casi peggiori – a vere e proprio débâcle di aziende intere.

Non dimentichiamo poi l’effetto Asch che si verifica quando ci si conforma all’opinione del gruppo o della maggioranza anche se si pensa una cosa diversa: è stato dimostrato che essere parte di un gruppo è sufficiente per modificare le percezioni, i giudizi e le azioni di una persona. Soprattutto durante il processo decisionale o la risoluzione dei problemi, la maggioranza non ha necessariamente ragione…e perdere il contributo di un punto di vista diverso può gravemente minare i risultati del gruppo.

Scenario desolante? No, descrizione di quello che può succedere in molti team ma che può venire affrontato e superato con gli strumenti opportuni, a patto di non crogiolarsi nell’apparente armonia di un team che non funziona.

Innanzitutto ci sono strumenti che consentono di scoprire le differenze tra i membri del team: profili comportamentali, feed back 360, mappatura delle inclinazioni rispetto al conflitto, analisi delle modalità di decisione, ecc; se opportunamente utilizzati, questi strumenti possono essere il punto di partenza per valorizzare le differenze e farne un punto di forza. Questi strumenti sono utili sia quando il team è già stato formato sia quando è ancora da formare, andando proprio a ricercare quella diversità – non solo a livello di competenze ma anche di approccio e di “stile” – che permetterà al team di arricchirsi.

Ci sono poi strumenti atti a stimolare la creatività e l’espressione di punti di vista alternativi all’interno del team: tecniche di brainstorming, gestione dei feed back, assegnazione di ruoli come descritto, per esempio, da Edward DeBono nel libro “Sei cappelli per pensare”, ecc.

Last but not least: team coaching.
Oltre a facilitare l’utilizzo degli strumenti appena elencati, il team coach aiuta il team a individuare i proprio blocchi, a vedere gli “elefanti nella stanza” (ciò che tutti sanno ma di cui nessuno parla), a capire dove si interrompe il processo per lavorare efficacemente, dove si inceppano le relazioni tra i vari membri, a lasciare sul tavolo della riunione le eventuali scorie di quelle sane discussioni che portano poi il team a raggiungere gli obiettivi prefissati.
La sfida è passare dalla dicotomia – “Pensatori indipendenti” o “Team Player” – all’unione di queste due caratteristiche imprescindibili per la buona riuscita di un team.
Ci sono alcune cose che impari meglio nella calma, altre nella tempesta” (W. Cather)

Agnese Pelliconi