Quello che leggerete qui di seguito è un estratto dal volume “Coaching e Neurosceinze” di Raquel Guarnieri e Paolo Baldriga. Un brano che all’interno del coaching ontologico-trasformazionale esamina la tematica della distinzione linguistica e l’uso delle domande potenti.
Le distinzioni linguistiche sono lo strumento di elezione del coaching ontologico-trasformazionale, strumentali a comprendere il tipo di osservatore che è il coachee che spesso non riesce a vedere una cosa perché non possiede una distinzione linguistica.
Il ruolo del coach nella sessione è proprio quello di chiarire la distinzione linguistica attraverso domande potenti per generare la capacità di distinguere nel linguaggio del coachee.
Distinguere non significa emettere un giudizio di valore (esempio: l’impegno é meglio dell’obbligo), ma solo apprendere quella distinzione che aiuta a definire la realtà in modo diverso e quindi ad agire in modo diverso.
La distinzione linguistica serve a dare a una parola un significato diverso dal significato comune (ad esempio, secondo il coaching ontologico “generosità” non significa solo dare, ma anche saper ricevere) e non va intesa unicamente come la contrapposizione di due parole (esempio: controllo-impegno o vittima-responsabile).
Il dizionario delle distinzioni linguistiche rappresenta uno degli strumenti più importanti del coaching ontologico e va inteso come un lavoro in continuo aggiornamento che il coach può arricchire in base alla propria esperienza. Più sono le distinzioni linguistiche di un coach, più strumenti ha per fare domande; le distinzioni possono servire al coachee per cambiare opinioni e per agire in un modo diverso, mentre al coach servono per fare domande: secondo il modello del coaching ontologico i limiti nella nostra capacità di distinguere nel linguaggio è il limite del nostro coaching
Tra le distinzioni linguistiche del modello di coaching ontologico ritengo importante quella tra “impegno” e “obbligo“; l’impegno, secondo il modello del coaching ontologico, è ciò che trasforma una promessa in realtà e inoltre parla delle nostre intenzioni. Riteniamo sia una potente leva di azione costantemente presente nella vita di ognuno: tutti siamo, più o meno consapevolmente, impegnati in qualcosa, ma spesso non ne siamo consapevoli. Inoltre, per l’ontologia del linguaggio, quando conversiamo e usiamo gli atti linguistici siamo sempre impegnati con qualche cosa. Humberto Maturana, ad esempio, ritiene che l’appello all’obiettività sia uno strumento per “obbligare”; quando diciamo che qualcosa è “obiettivamente” in un certo modo, il nostro impegno potrebbe essere quello di “obbligare” qualcuno a impegnarsi a fare o a mantenere l’impegno. Quindi l’uso di parole come “obiettivo”, “dovere” o “ovvio” può implicare, per la teoria ontologica, un impegno “sottostante” a convincere, a pensare come pensiamo noi.
Quando ci impegniamo con qualcuno a fare delle azioni, operiamo una scelta libera e volontaria per raggiungere i nostri obiettivi e ci assumiamo i costi e gli oneri conseguenti. Attingiamo alle nostre leve motivazionali e ci carichiamo dell’energia necessaria per passare all’azione. È in questo contesto che si pone la distinzione tra impegno e obbligo.
Quando invece ci sentiamo obbligati a fare qualcosa entriamo nel campo del dover fare e abbiamo il timore delle conseguenze se non rispettiamo l’obbligo. Da un punto di vista aziendale, se un capo non ottiene l’impegno desiderato dai suoi collaboratori, al fine di renderlo responsabile al 100%, potremmo chiedergli cosa fa lui per generare l’impegno e che cosa fa sì che le persone si sentano “obbligate“.