La sottile linea rossa tra impegno e sforzo

4 Febbraio 2020 12:06
12 min.

“Mi sto impegnando molto”, “faccio fatica a….” “mi costa molto sforzo”.

Frasi e parole che sentiamo quotidianamente o che spesso siamo i primi a pronunciare….siamo sicuri che abbiano lo stesso significato?
Nel coaching ontologico grande importanza viene data alle distinzioni linguistiche, cioè alle differenziazioni che possiamo operare con il linguaggio e che ci permettono di apprendere nuovi punti di vista. Seguendo il principio che “i limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo”, più siamo capaci di cogliere le sfumature nelle parole che usiamo quotidianamente, più siamo in grado di cambiare prospettiva e possibilità di azione.

Allora vale la pena vedere quali possono essere le differenze tra queste parole (fatica, impegno, sforzo) e che cosa implicano per la nostra vita o quella dei gruppi e organizzazioni di cui facciamo parte.

Partiamo da un principio che appartiene alla nostra cultura (ma non solo): ha valore quello che richiede fatica, quello che abbiamo sudato tanto per ottenere. Se invece sono bravissimo a fare una cosa e mi riesce facile… beh è come se valesse meno. Da qui il vecchio adagio “migliorare i proprio punti di debolezza”, che può avere anche una sua valenza ma che spesso porta persone ed organizzazioni a focalizzarsi quasi esclusivamente sui propri punti deboli (per migliorarli) con tantissima fatica (e sforzo!), rischiando di esaurire le energie che invece servirebbero, in primis, per potenziare i proprio punti di forza.

Pensiamo se Michael Jordan all’inizio della carriera si fosse trovato davanti alla scelta: basket o baseball? Sudare (e sforzarsi) per diventare un medio giocatore di baseball o sudare (e impegnarsi) per diventare una leggenda del basket? Attenzione: non si tratta di sottovalutare l’importanza dell’impegno, della costanza e del lavoro (M. Jordan è famoso per la sua tenacia e la sua meticolosità negli allenamenti); sono motori potentissimi e appunto per questo è da scegliere bene dove applicarli.

Investiamo molte energie per avere un piccolo (benché nobile) risultato o investiamo molte energie per avere un grande risultato?

Per esempio: se parlo bene in pubblico ma ho molte difficoltà nel fare le presentazioni in power point, investirò ore per diventare un oratore straordinario o investirò le stesse ore per diventare un mediocre redattore di slide? (attività che molto probabilmente posso anche delegare).

Dirigo un’azienda che ha 5 prodotti eccellenti e uno scarso: dove investirò? Per conquistare il mercato coi 5 prodotti eccellenti o per cercare di far funzionare quello scarso?

La risposta può cambiare a seconda dell’obiettivo e delle circostanze – e non sempre è necessario scegliere – ma è utile riflettere sul modo in cui sto investendo le mie energie. Perché?
Perché energia, impegno e forza di volontà non sono infinite….

La forza di volontà, come spiegato nel libro di Baumeister “Willpower”, si può paragonare ad un muscolo: ha capacità finita, si può allenare ma non è infinita. Non solo: si attinge alla stessa riserva di forza di volontà per tutti i tipi di impegni.È quindi fondamentale decidere dove impiegarla: motivo per cui partire con 10 buoni propositi a inizio anno non è la più saggia delle idee, motivo per cui è meglio non comprare i cibi che non vogliamo mangiare, motivo per cui dare troppi obiettivi ai proprio collaboratori pone le basi per mancarli tutti.

Tra l’altro, anche il processo decisionale (e quindi decidere come impiegare la forza di volontà) consuma una bella fetta di “forza di volontà”….
Inoltre, una volta che ci siamo dati un obiettivo, cadiamo facilmente nella trappola del “continuare a investire energie” in quello che abbiamo intrapreso. Si tratta di quel bias cognitivo che spinge i giocatori di poker a non abbandonare il tavolo – anzi, ad alzare la posta in gioco –  anche se hanno perso una fortuna.
Stessa cosa può accadere alle aziende quando continuano ad investire centinaia di migliaia di euro (o milioni) a fronte di progetti che non danno alcun ritorno, dimenticando i numeri e le valutazioni e affidandosi solo al mantra “ci abbiamo investito così tanto che ora sarebbe un peccato buttare via tutto”.
Stesso motivo per cui si portano avanti relazioni fallimentari…. “ci ho messo così tanta energia, mi sono sforzato tanto”.

Quando allora è allora il momento di “mollare la presa” su alcune attività che abbiamo intrapreso o alcuni obiettivi che ci siamo dati? Oppure, per usare un potente insegnamento buddista, quando è il momento di “lasciare andare con grazia cose non destinate a noi”?

È qui che entra in gioco la distinzione tra impegno e sforzo. Quando mi impegno in qualcosa, posso avvertire fatica, anche molta, ma ho la sensazione di andare verso la direzione giusta. È come scalare una montagna avendo ben in vista la vetta: faccio fatica ma vedo la meta, so che posso raggiungerla. Diversa è la situazione in cui perdo il sentiero, cammino in salita e non vedo la cima faccio fatica e probabilmente un senso di frustrazione sempre maggiore tenderà ad appesantire ulteriormente le mie gambe.

Se nel perseguire i miei obiettivi avverto una forte sensazione di sforzo, probabilmente c’è qualche blocco, qualche elemento del mio sistema che non ho considerato, oppure sono cambiate le mie priorità nel tempo ma non ho allineato le mie azioni di conseguenza.

Non a caso, durante un percorso di coaching, si usa il termine di “ecologia degli obiettivi”: l’obiettivo del coachee si inserisce in un vissuto, in un contesto in cui coesistono altri obiettivi ed altre esigenze. Il coachee deve valutare quale impatto avrà sul suo “ecosistema” il raggiungimento dell’obiettivo e il processo per raggiungerlo. L’ecosistema include il coachee, i suoi altri obiettivi, le sue risorse, i suoi affetti, l’attività professionale, le sue passioni.. insomma, tutto il suo mondo.

A livello di organizzazioni, il coaching sistemico si focalizza proprio sulle connessioni tra gli elementi del sistema in cui si opera: il team, l’azienda, il contesto in cui opera l’impresa. Spesso nelle aziende “intensificare” gli sforzi per risolvere un problema, senza averne capito la causa, non fa che allontanare la risoluzione del problema e portare il sistema lontano dall’equilibrio.
Nella vita privata come nella vita aziendale, spesso la sensazione di sforzo  – “il macigno da portare” – svanisce quando ci si concentra su quelle che vengono definite le “gold activities”: le attività che hanno un alto impatto nella nostra vita, nelle quali siamo abili, che ci piacciono e che sì, sono anche sfidanti, ci fanno uscire dalla confort zone ma per fare crescere noi e le nostre organizzazioni. Richiedono impegno, fatica ma non quella sensazione di sforzo che drena senza risultato le nostre energie e la nostra forza di volontà.

Allora accogliamo come prezioso campanello d’allarme la sensazione di sforzo, distinguiamola dall’impegno (e dalla fatica “sana”) per fare una riflessione sul nostro ecosistema, sugli obiettivi che vogliamo perseguire (sono ancora importanti per noi? ce ne sono altri a cui vogliamo dare priorità?), sulle attività che intraprendiamo (hanno un alto impatto? ci danno gusto? ci fanno crescere?) per mettere il carburante (energia, forza di volontà) nel posto giusto, ricordandoci che più di duemila anni fa, Archimede già aveva detto: “Datemi un punto di appoggio e vi solleverò il mondo”.  Tutto sta nell’individuare il nostro punto di appoggio…

Agnese Pelliconi