Il coaching inclusivo

26 Giugno 2019 11:27
11 min.

Da tempo nel mondo della programmazione urbanistica si progetta in modo inclusivo. Il concetto di inclusività si è progressivamente spostato in molti contesti lavorativi, come per esempio quello scolastico e del mondo del lavoro, pensiamo per esempio al diversity management.

Ma cosa vuol dire progettare secondo il principio di inclusività?
Vuol dire “partire con la fine in testa” come direbbe Stephen Covey. Nel momento in cui il progettista si accinge a disegnare il suo piano edilizio, realizza la propria idea includendo le enne diversità. Realizza, così, un prodotto plastico e modulabile sulle singole necessità. Non ho, quindi, l’esigenza di integrare ciò che di diverso verrà perché l’ho già considerato.
Nel progettare si passa quindi da:
un approccio integrativo                                                                  ad un approccio inclusivo

 

Ma tutto ciò cosa ha che fare con il coaching?
Velocità, diversità, multiculturalità…sono solo alcuni fenomeni tipici di questa società e del mercato del lavoro. Il nesso tra politica inclusiva e coaching pertanto è alquanto evidente.
Anche se facenti parte della stessa comunità coach e coachee sono “portatori sani” delle proprie diversità culturali. Tali diversità, ancora più evidenti quando incontriamo persone di altre culture, giocano un ruolo importante nel consolidare l’alleanza tra coach e coachee, elemento necessario per l’efficacia del percorso di coaching.

Philippe Rosinski, il teorico del coaching interculturale, nei suoi studi evidenzia come il termine cultura abbia un’accezione più estesa rispetto all’associazione tipica che viene in mente quando si parla di cultura. Questo termine infatti, include in sé, oltre al classico significato relativo all’appartenenza ad una nazione (anglosassone, italiana, francese…) altre accezioni: gruppi di cultura interni alla nazione; cultura aziendale, cultura popolare, cultura musicale, cultura familiare, cultura personale…
Ovviamente, è importante che chiunque operi in contesti organizzativi, in modo diretto come può fare un manager o in modo indiretto come può fare un coach, includa queste caratteristiche culturali nel suo processo di comunicazione. Poiché la cultura, di fatto, permea tutti gli ambiti del comportamento umano, dal modo di considerare il tempo, al modo di definire il rapporto con il potere, dal modo di pensare, a quello di definire i nostri obiettivi e di organizzarci. Inoltre, le nostre tendenze culturali determinano anche il nostro modo di fare coaching. È importante, quindi, riconoscere e definire un vocabolario che includa le differenze specifiche tra coach e coachee, tra il coachee e i suoi interlocutori.

Lavorare includendo le culturalità tra l’altro libera il pensiero creativo, attiva il cambio di paradigma sfidandoci ad andare oltre i nostri schemi, ad andare oltre i nostri limiti e a ricercare soluzioni innovative che sfuggono agli standard.
Considerando il percorso tipico del coaching articolato nelle sue tre classiche fasi: valutazione; definizione dell’obiettivo finale e dei sotto-obiettivi; realizzazione; cosa fa di diverso il coaching inclusivo?
Vediamolo in sintesi:
Nella fase di valutazione: stimola a tener in considerazione i filtri psicologici e culturali che agiscono nella valutazione delle persone e degli eventi. Per poi lavorare in modo consapevole su questi filtri modificandoli e cercando di superare gli ostacoli che li rendono inefficaci.

Nella definizione degli obiettivi: stimola i coachee a guardare al successo in modo globale. Li aiuta a fissare degli obiettivi utili per sé ma anche per l’organizzazione e per contribuire a rendere migliore il mondo. I coachee, infatti, sono tanto più motivati quanto più possono constatare gli effetti positivi del loro operato sulla società. Quest’ultimo aspetto, soddisfatti ormai tutti gli altri livelli della piramide dei bisogni, è oggi l’elemento moltiplicatore della prestazione. Così come già evidenziato dallo stesso Maslow A., che nella sua pubblicazione del 1968, “Toward a Psychology of Being”, inserisce un quinto scalino nella piramide, i bisogni cognitivi: necessità di conoscenza e significato, esigenze estetiche; bisogni di trascendenza.

Nella realizzazione: oltre al classico apprendimento in tempo reale i coach incoraggiano i propri coachee a spostarsi nel tempo e ad ascoltare i propri desideri, a trarre beneficio dai propri punti di forza, a superare i propri lati deboli e a partire dai propri successi per andare avanti. La capacità di spostare le prospettive culturali adattando il comportamento alla comunanza culturale, riconoscendo e accettando le differenze, è utile per realizzare con successo una migliore consapevolezza culturale che porti alla competenza. Il viaggio verso la competenza culturale è ugualmente vantaggioso per manager e organizzazione e contribuisce allo sviluppo professionale e alla crescita personale e dell’organizzazione.
Uno primo strumento utile in questo percorso di consapevolezza culturale è il modello di Milton Bennett [1] e anche se non nasce come strumento di coaching, questo modello rappresenta un percorso di sviluppo sia per il coach sia per i coachee. Infatti, fornisce un metodo per aumentare step by step la propria capacità di riconoscere e trattare le differenze culturali. Dà la possibilità a chi lo utilizza di prendere consapevolezza dello stadio a cui si trova e di definire in che cosa consiste la fase di sviluppo successiva, attivando il proprio progresso.

Secondo Bennett la sensibilità interculturale si sviluppa lungo un continuum a sei fasi che va dall’approccio mentale monoculturale all’approccio mentale multiculturale:

Philippe Rosinski, in seguito ha aggiunto una settima fase:

Ma vediamo come questo modello ci può aiutare. Proviamo a fare un esercizio:
Pensate ad una situazione che state vivendo o avete vissuto in cui vi siete trovati a confrontarvi con qualche forma di disparità culturale:
Provate a rivivere la situazione emozionalmente.

In che cosa l’altra cultura era differente? E come avete vissuto queste differenze? Eravate frustrati, offesi, sconcertati, divertiti, entusiasti?
Riflettete sul modo in cui avete gestito queste differenze. In quale stato d’animo vi trovavate? Che impatto ha avuto la situazione sul vostro comportamento e atteggiamento?
Il modello permette di definire il vostro approccio alle differenze culturali. Valutate il vostro livello di sviluppo culturale e individuate, qualora ce ne fosse necessità, su cosa lavorare per migliorare.
Buon lavoro!
Biagia Diana

[1] Milton Bennett, “Toward Ethnorelativism: A Developmental Model of Intercultural Sensitivity”, 1993, Philippe Rosinski “Beyond Intercultural Sensitivity: Leveraging Cultural Differences”, 1999