Anche oggi ho sbagliato, meno male! Quante volte diciamo questa frase a fine giornata? Penso che la maggior parte di noi lo faccia raramente, soprattutto se l’errore ha avuto conseguenze spiacevoli…
Eppure il vecchio adagio “sbagliando s’impara” è più che mai confermato dalle ultime ricerche in campo neurologico: non solo il nostro cervello apprende dagli errori, ma apprende due volte.
Quando facciamo un errore, le sinapsi (cioè i segnali elettrici che si attivano tra le varie parti del nostro cervello) si attivano. Jason Moser (*) ha scoperto che quando le persone fanno un errore il cervello ha due riposte possibili: la prima avviene quando non siamo neppure consapevoli dell’errore (error-related negativity) e si verifica quando il cervello è sottoposto ad un conflitto tra una risposta corretta ed un errore. La seconda risposta (error positivity) è un segnale che si attiva quando siamo consapevoli degli errori commessi.
Ne consegue che il cervello si attiva e si sviluppa quando commettiamo un errore, anche se non ne siamo consapevoli. Quando arriva la consapevolezza, c’è una ulteriore crescita. Il creare e modificare le connessioni neuronali non solo permette al cervello di svilupparsi ma è condizione per mantenere la neuro plasticità (e quindi avere un cervello attivo a prescindere dall’età).
Se quindi da una parte sbagliare ci fa tanto bene, dall’altra spesso riconoscere gli errori non ci riesce facile e sbagliare viene vissuto quasi come una colpa. In questo non ci aiutano certi retaggi culturali e molti comportamenti che adottiamo nella vita privata e nelle organizzazioni.
Avete mai sperimentato una sessione di problem solving in azienda in cui invece di cercare la causa del problema (per risolverlo) si cerca il colpevole? Comportamento che non fa che allontanare la risoluzione del problema e incrinare i rapporti all’interno dell’organizzazione.
Oppure di fronte ad un errore si infila una serie di “ma”, “però”, “non è colpa mia” finendo per attribuire a cause esterne l’errore…senza apprenderne nulla!
Immaginate questa scenetta: il bambino cade, la mamma lo rialza, il bimbo picchia la terra con la mano dicendo “terra cattiva che mi hai fatto cadere”. Il fatto che il bambino stesse correndo con le scarpe slacciate, su un terreno scosceso – dopo le mille raccomandazioni di prestare attenzione – passa in secondo piano. E se l’immagine del bambino ci fa sorridere (l’abbiamo fatto tutti! E in molti abbiamo consolato un bambino in questo modo), questo comportamento nella nostra vita adulta non fa che impoverirci: sbagliamo, ne subiamo le conseguenze e non impariamo nulla.
Ancora peggio, di fronte a un errore abbandoniamo l’obiettivo, molliamo il colpo, rinunciamo.
Cosa succede? Una distinzione importante che ci aiuta a comprendere è quella tra “errore” e “fallimento”, dove l’errore viene visto come parte del processo di apprendimento: sperimentarsi in cose nuove comporta la possibilità di sbagliare, si esce dalla propria zona di comfort. Vissuto con questo approccio, cadono le emozioni negative associate allo sbaglio e si lascia spazio alla fiducia di raggiungere l’obiettivo, anche grazie all’apprendimento che scaturisce dall’errore.
Viceversa, quando sbagliare viene vissuto come un fallimento, non se ne vedono gli impatti positivi sulla nostra crescita, ma prevalgono emozioni quali la paura, la rabbia, la vergogna e le nostre azioni saranno dirette a nascondere l’errore o a trovare giustificazioni, piuttosto che apprendere da quando abbiamo fatto di sbagliato.
È poi facile che dall’azione “ho fallito” si passi all’identità delle persona “sono un fallito”. Un errore diventa quindi totalizzante, si passa dall’agire all’essere, andando ad amplificare proprio quelle emozioni di vergogna e paura, con un pericoloso effetto domino, perché se sono un fallito, fallisco in tutti gli ambiti della mia vita e continuerò a fallire senza via d’uscita (la profezia che si auto avvera!)
John Wooden diceva che non ci si deve mai considerare dei falliti, finché non si inizia a incolpare gli altri del proprio fallimento. Ciò significa che è possibile continuare a imparare dai propri errori fino a quando non li si nega.
Si parla a questo proposito di mindset statico e mindset dinamico, dove il mindset statico percepisce gli errori come fallimenti senza via d’uscita, come limiti invalicabili che portano a rinunciare ai propri obiettivi, ad abbandonare il campo, mentre il mindset dinamico individua negli errori il punto di partenza per avanzare nel proprio percorso, facendo tesoro dell’esperienza acquisita.
Sono note le frasi di molti campioni sportivi che ribadiscono l’importanza degli errori per raggiungere i livelli di eccellenza per cui sono diventati famosi, errori utilizzati appunto come preziosi momenti di apprendimento, non come limiti invalicabili.
E che dire di Thomas Edison: durante una conferenza stampa, quando un giornalista gli chiese: “Dica, Mr. Edison, come si è sentito a fallire duemila volte nel fare una lampadina?”, lui rispose:
“Io non ho fallito duemila volte nel fare una lampadina; semplicemente ho trovato millenovecento-novantanove modi su come non va fatta una lampadina”.
Un alleato prezioso in questi processo di apprendimento è un percorso di coaching, che può essere descritto proprio come un processo di apprendimento: il coachee impara durante le sessioni e dopo le sessioni, tramite le azioni che compie nella sua vita quotidiana. Ciascuna azione porta ad una preziosa consapevolezza: si impara da quello che si fa, da quello che si sbaglia e…anche da quello che non si fa! Ogni elemento ci dà informazioni utili sulle nostre opinioni, sulle nostre emozioni, sui nostri schemi, su quello che ci porta verso l’obiettivo e su quello che invece ce ne allontana…o su quale è l’obiettivo che ci sta veramente a cuore.
Quindi, alla prossima persona che oserà dirvi “hai sbagliato, sei un fallito”, potrete tranquillamente rispondere “ho sbagliato, sto ampliando le mie connessioni neuronali, sto diventando più intelligente e consapevole e sto ponendo le basi per la mia crescita…”.
Provate, potrebbe cambiarvi l’umore della giornata!
Agnese Pelliconi
(*) per questo ed altri studi su neuroscienze coaching cfr. R. Guarnieri e P. Baldriga, “Coaching e neuroscienze”.