Ikigai, ovvero la ragione d’essere, il motivo per cui ogni mattina ti alzi dal letto, l’energia vitale che ti spinge.
Ma di cosa stiamo parlando, in pratica? E, soprattutto, come può esserci utile nella vita di tutti i giorni? Ultimamente è una materia discussa e si moltiplicano libri, contributi video, discussioni. In questo articolo provo a fare una riflessione che, partendo dall’ormai famoso metodo giapponese per trovare il senso della vita, porta alla luce le maggiori frustrazioni di cui sono testimone nel mio lavoro di coach, arrivando a capire come un buon coach possa aiutare nel trovare il proprio centro, dando una svolta alla carriera professionale e alla qualità della vita.
L’ikigai, una volta scoperto, funziona come una bussola che ci guida nelle decisioni, nel bilanciare ciò che è realmente importante per noi, nel ricercare ciò che ci rispecchia e risuona in noi come “giusto da fare”. Chi percepisce pienamente la ragione che lo spinge a vivere avrà più facilità a motivarsi, a trovare in sé le risorse per affrontare gli ostacoli. Affronterà con entusiasmo la giornata, dedicandosi a ciò che lo fa felice. E lo “Studio di Osaki” condotto in Giappone nel 1994 ha indicato come la consapevolezza del proprio senso della vita contribuisca attivamente all’allungamento della speranza media di vita delle persone. Mica male, no?
Ma partiamo dall’inizio: il nostro personale ikigai si innesta nel punto di congiunzione in quattro grandi aree tematiche:
• quel che amiamo fare
• i nostri punti di forza o le nostre capacità
• ciò di cui il mondo ha bisogno
• le cose per le quali veniamo remunerati, o potremmo esserlo, e le cose che potrebbero valerci una contropartita da parte di altre persone.
Parlavamo di frustrazioni: quelle severe, di cui non possiamo non accorgerci, ma anche quelle più sottili, che rendono difficile alzarsi al mattino per andare in ufficio, abbassando costantemente il nostro grado di felicità. Queste sono più subdole perché possono spingerci a procrastinare i cambiamenti in attesa che arrivino “periodi migliori”, facendoci perdere molto tempo nella nostra personale ricerca della felicità.
Ecco come i quattro elementi che compongono l’ikigai possono “zoppicare”, proprio come le gambe di un tavolo, generando insoddisfazione, timori e senso d’inutilità.
Il primo caso è quello che più mi appassiona, perché sono convinta che ci sia molto da lavorare da parte di manager e imprese: se siamo bravi in qualcosa che amiamo, ma siamo consapevoli della sua inutilità per il mondo che ci circonda, possiamo anche essere pagati per farlo, ma avremo un senso di vuoto e una mancanza di motivazione.
Purtroppo, nelle mie diverse esperienze lavorative, ho incontrato molte persone che soffrivano di cronica mancanza di motivazione. Il più delle volte, questa mancanza trova radice nel non avere la percezione di come gli sforzi lavorativi contribuiscano a un bene comune. Lavori commissionati e anche ben fatti, ma di cui sfugge il beneficio finale all’azienda, lavori parcellizzati tra più persone che perdono così di significato (la nuova versione della catena di montaggio), giovani tecnicamente brillanti costretti ad abbassare le loro capacità da superiori poco lungimiranti. Qua si innesta un potenziale inespresso enorme che, se liberato, contribuirebbe a un balzo avanti della produttività e della qualità del lavoro, con beneficio a lavoratori e imprese. Alzi la mano chi, nella propria vita professionale, non si è trovato almeno una volta in questa situazione.
Ancora: avete presente quando avete un lavoro, anche ben remunerato, che porta qualcosa di utile e sapete far bene, ma proprio non vi piace (o non vi piace più)? Sentirete che state sprecando la vostra giornata, faticherete ad alzarvi al mattino e magari sarete consapevoli che potreste dare molto molto di più … se solo vi piacesse quel che fate!
Magari diventerete man mano meno bravi perché vi manca la spinta ad aggiornarvi, a fare il meglio, e la carriera subirà un rallentamento. Potreste trovarvi impantanati in un’azienda per vent’anni e accorgervi poi che è troppo tardi per cambiare, perché nel frattempo il mondo è andato avanti. Qui sono fondamentali i percorsi di sviluppo aziendali (quelli fatti bene!) e anche avere il coraggio di cambiare azienda o professione quando sentiamo di essere giunti alla fine nel nostro percorso.
Oppure ancora, ci pagano per farlo, lo riteniamo un lavoro utile e ci piace, ma non siamo tecnicamente all’altezza, sperimenteremo un senso di precarietà e timore. Magari abbiamo vecchi gap formativi mai colmati, oppure abbiamo fatto una carriera fulminante senza solide basi, oppure ancora siamo delle “vecchie volpi” del mestiere ma nel frattempo il mondo è cambiato e non siamo più al passo. In questo caso, avremo timore ad esprimere le nostre insicurezze, difficoltà a muoverci nei rapporti con i colleghi, paura con superiori e sottoposti di essere “scoperti” nella nostra incompetenza, trincerandoci nel nostro fortino. Questo genererà elevati livelli di stress, la nostra immagine professionale subirà ripercussioni e magari tarderemo ad accorgercene… forse è il caso di correre ai ripari prima che si scoperchi il vaso di Pandora.
E infine… Ci piace, siamo bravi e facciamo del bene al mondo ma non veniamo pagati (sufficientemente) per farlo? Il nostro non è un lavoro, ma un hobby o, se il bene che facciamo al mondo è preponderante, del volontariato. E ovviamente va benissimo, l’importante è esserne consapevoli. Spesso nel volontariato si riversano le maggiori passioni delle persone, in Italia circa 7 mln di persone sono attive in questo ambito. Questo accende una lampadina su come, ovviamente sopra una certa soglia soggettiva, il tema economico sia ormai universalmente riconosciuto come poco motivante in ambito lavorativo. Un boost di breve durata che deve trovare ben altre leve motivazionali, preferibilmente intrinseche.
Ora il quadro d’insieme è completo, anche se molto altro ci sarebbe da dire e studiare. Probabilmente, se abbiamo qualche anno alle spalle, abbiamo prima o poi provato tutte queste situazioni, anche con molte sfumature intermedie.
Ma che fare se siamo PROPRIO ORA in una di queste situazioni? Se siamo frustrati, sperimentiamo l’inutilità del nostro lavoro, non riusciamo a farci pagare per quello che facciamo, non amiamo più il nostro lavoro o iniziamo ad essere consapevoli di lacune nella nostra preparazione?
Io consiglio di fermarsi un attimo, prendersi un momento per acquisire maggiori consapevolezze sulla realtà che ci circonda, sulle alternative che abbiamo, sui nostri reali obiettivi e sulle risorse che abbiamo per perseguirli. In questo caso, un percorso di coaching può aiutarci nell’esprimere al meglio le nostre insoddisfazioni, per trovarne l’origine e, in questo modo, spalancare la porta al cambiamento che vogliamo.
Perché la ricerca della felicità è intrinseca nella vita di ciascuno di noi e non possiamo permetterci di perdere tempo.
Roberta Sala