A volte ci si sente bloccati dal passato senza nemmeno rendersene conto.
Un commento fa scattare una reazione sproporzionata. Una decisione viene evitata senza capire il perché. Un confronto familiare segue sempre lo stesso copione. In quei momenti il passato sembra riprendere vita, non come fatto reale, ma come automatismo emotivo, come reazione che arriva prima della consapevolezza.
C’è chi vive guardando avanti e chi, senza volerlo, cammina voltato all’indietro.
Non per scelta, ma perché frammenti di vita – una perdita, una svolta inattesa, un dolore improvviso – restano impressi e continuano ad agire. A volte si fanno sentire sotto forma di ricordi, ma più spesso si manifestano come resistenze, paure, esitazioni. La vita va avanti, ma qualcosa dentro resta fermo.
Non è debolezza. È profondamente umano.
Ogni storia lascia tracce. Alcune si dissolvono nel tempo, altre diventano parte dell’identità. “Sono fatto così perché mi è successo questo”, “è normale che reagisca così, dopo quello che ho passato”. Eppure, a un certo punto, nasce una domanda nuova: se il passato è finito, perché continua ad avere potere?
In effetti, il cervello non distingue facilmente tra realtà e ricordo vivido. Quando si ripensa a un evento carico di emozioni, si riattivano le stesse reazioni neurochimiche. È come se il corpo e la mente si comportassero come se tutto stesse accadendo di nuovo. Ma non è il passato a tornare. È la mente a riportarlo nel presente.
Accade nella memoria e nel corpo, non fuori da noi. Esistono parole, volti, situazioni che funzionano come interruttori emotivi, ma ciò che si riattiva è solo una traccia. In questo senso si può dire che il passato non esiste più.
Non nel mondo esterno, non nel tempo reale.
Esiste solo quando viene richiamato e rivissuto interiormente.
“Il passato non ha alcun potere sul momento presente” scrive Eckhart Tolle. Non per negare il dolore, ma per ricordare che il passato non è più una realtà tangibile. Non può essere cambiato né toccato. È concluso. Dire “il passato non esiste” non è negare ciò che è stato, ma riconoscere che non esiste più come forza autonoma. Sopravvive nella misura in cui lo si alimenta.
Riconoscere questo non sminuisce le esperienze vissute.
Le onora, ma le libera dal compito di definire chi siamo oggi.
Il passato è come un film già proiettato: può ancora emozionare, ma lo schermo è vuoto. La pellicola non gira più. Solo la mente continua a guardarla.
Quando questa visione prende forma, il presente torna ad aprirsi.
E con esso, la possibilità di scegliere risposte nuove.
Il coaching non rilegge il passato, non lo interpreta, non lo analizza.
Invita a stare nel presente con lucidità, a notare i comportamenti che si ripetono e a chiedersi: servono ancora? Funzionano davvero? È un percorso che allena la libertà.
Un esercizio quotidiano di scelta consapevole.
Una persona che ha evitato a lungo le sfide per paura di fallire può, nel coaching, sperimentare azioni imperfette: accettare un incarico nuovo, parlare in una riunione, iniziare un progetto anche senza garanzie. Non si tratta di superare la paura, ma di non esserne più governati.
Allo stesso modo, chi ha sempre evitato i conflitti può allenarsi a esprimersi in modo più autentico e graduale. Non per diventare un’altra persona, ma per espandere le possibilità di risposta, per avere la possibilità di scegliere davvero.
Il coaching non cancella ciò che è stato.
Aiuta a sospendere il riflesso automatico che lo tiene in vita.
Non si tratta di dimenticare, ma di smettere di portare ovunque il passato, come se fosse l’unica storia possibile.
Cambiare non significa stravolgersi.
Significa riconoscere che non tutto ciò che è stato è ancora necessario.
E che forse, oggi, si può iniziare a scrivere qualcosa di nuovo.
Marina Di Ceglie