Essere o Fare? Marcel Proust, Betty Smith e la creatività

9 Aprile 2020 11:09
14 min.

Il nostre “essere” è costituito dalla somma dei nostri “fare”… o c’è di più?
Se il dilemma shakespeariano si sintetizzava nel celebre “To be or not to be?” (“Essere o non essere?”), il dilemma di questi giorni, ma non solo, si potrebbe tradurre nella domanda: “Fare o Essere”?

Come coach ontologico pongo spesso l’attenzione a quanto il linguaggio influenza le nostre vite, come crea la “nostra” realtà e modella il nostro futuro. Una distinzione che emerge prepotentemente in questi giorni (ma non solo) è quella tra “fare” ed “essere”.

Anche se non prestiamo molta attenzione alle parole, avvertiamo una differenza quando ascoltiamo frasi del tipo: “Sono un imprenditore” piuttosto che “Faccio l’imprenditore”, oppure “Sono un medico” invece che “Faccio il medico”, o ancora “Sono un artista” piuttosto che “dipingo quadri”. La differenza tra le due frasi ci balza all’occhio: percepiamo che c’è qualcosa di più che una semplice scelta grammaticale nell’uso di uno dei due verbi, spesso a livello inconscio.

Da chi preferiremmo essere assunti? Da chi “è” imprenditore o da chi lo “fa”? Quale persona vorremmo che fosse il nostro medico? Chi dice di “esserlo” o chi dice di “farlo”? Quale mostra di dipinti andremmo a vedere? Sentiamo che il grado di coinvolgimento della persona è differente, che la passione e l’energia messe nella propria attività sono ad un diverso livello, tanto che si parla di un “essere” e non solo di un “fare”.
Se nella maggior parte dei casi probabilmente preferiamo avere davanti qualcuno che s’identifica nella propria attività o lavoro, dall’altra parte l’identificarsi in maniera totale e assoluta con quello che facciamo può diventare una pericolosa arma a doppio taglio.
Il primo rischio è di “dimenticarci” di una parte importante di noi stessi: in quanti rimpiangono di avere “lavorato troppo” e non aver dedicato abbastanza tempo a coltivare le proprie passioni e i propri affetti? In quanti, dopo aver messo tutte le energie fisiche e mentali nella loro professione, si accorgono di aver trascurato tante altre parti di sé (la salute, in primis)? Siamo esseri complessi, ridurre il nostro essere ad un unico aspetto della nostra vita è riduttivo, rischiamo di perderci pezzi importati di noi lungo il cammino.

Se poi, come accade in questi giorni, una parte consistente del nostro “fare” viene meno (lavoro sospeso o rallentato, mobilità ridottissima, attività sportive o ricreative cancellate nelle modalità a cui eravamo abituati) …come la mettiamo? Se non agiamo più, non siamo più noi? Se ci tolgono il fare viene meno l’essere?

Questo dilemma non è legato solo a questi tempi di pandemia, a livello personale quasi tutti abbiamo sperimentato nella vita qualche brusca cessazione di un “fare” che aveva assorbito molte delle nostre capacità, energie e volontà: pensiamo a licenziamenti, fallimenti di aziende, malattie. Nei peggiori dei casi gli effetti a livello emotivo sono devastanti: apatia, rabbia incontrollata, sofferenza diffusa, depressione (con le conseguenze che purtroppo a volte rimbalzano dalle pagine di cronaca nera).
Altre volte un unico aspetto di noi diventa totalizzante, con conseguenze simili: c’è una grande differenza tra dire “sono malato” rispetto a “ho una malattia” o “sono disoccupato” invece che “non ho una occupazione”. Piccole parole che nascondono montagne di pensieri ed emozioni, che talvolta diventano macigni.

In alcuni casi la cessazione di un fare è una scelta consapevole, come un cambio di attività voluto, la scelta di avere un figlio, ecc. Eppure anche in questi casi talvolta si avverte un senso di perdita, come se cessando un fare, venisse a mancare una parte del nostro essere.
In tutte queste situazioni, ci viene in aiuto il riconoscere che la matematica non si applica: la somma dei nostri fare NON è uguale al nostro essere, o meglio: il nostro essere è superiore alla somma dei nostri fare. La nostra identità non si costruisce solo attraverso le nostre azioni (se prendo voti alti a scuola SONO intelligente, se rispondo sempre di “sì” SONO disponibile e altruista, se lavoro 14 ore al giorno SONO un bravo professionista, ecc): ricordiamoci che siamo anche i nostri bisogni, i nostri interessi, i nostri valori, le nostre emozioni, il nostro “senso” di stare al mondo.

Ripercorrendo la piramide dei livelli logici di Dilts (che mostra i diversi livelli di elaborazione e pensiero del nostro cervello) vediamo come dai livelli più bassi (ambiente, comportamenti, capacità) che individuano cosa facciamo e come, ci si sposta verso i livelli più alti che vanno a definire il nostro ESSERE, sino al nostro senso d’identità e di missione nel mondo.

 

Un cambiamento a livello del fare può avere un impatto sugli altri livelli, ma riconoscere che il fare è una parte costruttiva – ma non la totalità – del nostro essere, ci apre incredibili spazi di creatività.

Creatività? Faccio un esempio personale: amo viaggiare e adesso non mi è possibile farlo. Prima prenotavo un biglietto aereo, un hotel, chiedevo a qualche amico di venire con me, ecc…una lunga lista di fare, oggi comportamenti non attuabili. Quindi non posso fare un viaggio. Se mi fermo qui, mi resta un senso di tristezza e di impotenza.
Se invece ripercorro alcune domande della piramide: “Perché viaggio? Qual è il fine per me? Cosa mi guida?” posso andare oltre. Per me, per esempio, il viaggio è scoperta, condivisione, contemplazione della bellezza. Questo riflette i miei valori e anche il mio senso d’identità.
Quindi considerando che per me il viaggio è scoperta, posso scoprire cose nuove in altri modi: leggo, seguo un documentario, mi informo sulla cultura di un Paese in cui un giorno potrò andare, studio una lingua: tutte cose che posso fare anche adesso, a casa.
Non solo, visto che per me il viaggio è condivisione, approfitto di telefono, video, chat per condividere con le persone care: forse sarà il sogno di un prossimo viaggio fisico, forse vorrò condividere pensieri e stati d’animo di questo periodo così particolare. Ecco che il mio desiderio di condivisione trova nuove strade per esprimersi.
Se il viaggio è riempirsi gli occhi di bellezza, allora Marcel Proust mi ricorda che “L’unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell’avere nuovi occhi.” Quante cose ho dato per scontate e adesso è il momento di riscoprirne la bellezza?
Questo è solo un esempio, ma ciascuno ne può trovare molti, nella propria vita e nel proprio business.

Quando non sovrappongo l’essere al fare, se viene a mancare una possibilità di azione, ne invento di nuove, che rispecchiano e nutrono i miei valori e la mia identità.
E di creatività, nei prossimi mesi, ci sarà molto bisogno….

Per concludere rispetto alla domanda del titolo, siamo un essere E tanti fare, siamo più della somma dei nostri geni, delle nostre competenze, delle nostre azioni e delle nostre esperienze: siamo tutto questo E siamo qualcosa di più.
Concetto meravigliosamente espresso nelle parole con cui Betty Smith, nel suo capolavoro “Un albero cresce a Brooklyn” (che narra le vicende di un’adolescente e della sua famiglia poverissima durante gli inizi del Novecento a New York) descrive la protagonista, Francie Nolan: “…aveva ereditato il misticismo e l’abilità nel raccontare novelle della nonna, la volontà dura e crudele del nonno, il talento della zia nell’imitare le personedalla mamma i modi affettuosi ma soltanto la metà dell’acciaio invisibile di cui era fatta. Era un miscuglio di tutte queste cose, buone e cattive. Ma era anche qualcosa d’altro. Erano i libri che leggeva in biblioteca l’albero che germogliava irresistibilmente nel cortile, le discussioni col fratello che pure amava teneramenteEra un miscuglio di tutte queste cose e di altro che veniva dalla lettura, dal suo spirito di osservazione e dal vivere la vita giorno per giorno. Era qualcosa che era in lei ed in lei soltanto, qualcosa di differente da qualunque altro membro della famiglia. Era ciò che Dio o il Suo equivalente pone in ogni anima cui dà vita, qualcosa di particolare che fa sì che non vi siano due impronte digitali eguali al mondo.”.

Agnese Pelliconi