Abbiamo trovato finalmente il tempo per parlare con Maria Diricatti le cui personali esperienze e la sua visione del vivere si intrecciano con la sua professione di coach. Partiamo da qualche anno addietro…
Quando hai scelto di diventare coach?
In tre momenti diversi della mia vita. Il primo nel 2004, durante un percorso di sviluppo della leadership a Parigi, in cui Renault ha scelto di coinvolgermi come allora High Potential. Durante il corso, il nostro docente, un uomo sulla sessantina che dopo la sua carriera militare ha deciso di formarsi come coach, ci ha invitati ad immaginare il nostro futuro da lì a 10 anni e a disegnarlo. Non ricordo molto di quel disegno se non un particolare: una gabbia aperta dalla quale volava via un uccellino. Nel debriefing individuale di quella esperienza, quell’uomo mi ha restituito un feedback molto fuori dagli schemi e guardandomi con attenzione, mi ha detto che sarei diventata una coach. Rileggendo quel disegno oggi, penso a quel particolare e il significato che gli attribuisco, o comunque ciò che mi risuona è “liberare il potenziale”.
A distanza di 10 anni ero a Bruxelles e mi lasciavo alle spalle un’esperienza lavorativa intensa e molto faticosa, psicologicamente ed emotivamente. Sentivo il bisogno di ripartire, con un passo diverso. Mi sono iscritta al primo dei tre cicli del Master in Individual & Organisational Coaching della scuola BAO Elan Vital di Bruxelles, scegliendola per la sua offerta formativa fuori dagli schemi, dove PNL, Analisi Transazionale, Mindfulness… si completavano in modo armonioso con proposte basate sullo sciamanesimo, in un concepire integrato della persona tra mente, corpo e spiritualità.
Nel 2018 mi sono lanciata come libera professionista e ancora una volta ho scelto, e la mia vision credo riassuma bene il mio sentire e il mio agire il coaching: “Voglio dare il mio personale contributo alla realizzazione di un mondo in cui si possa essere e agire in modo autentico e responsabile”.
Cosa ha significato questo passaggio per te come donna oltre che come professionista?
Ancora una volta non posso non fare riferimento a un momento della mia vita personale… ma forse è normale che sia così. Ho compiuto i miei 40 anni a Bruxelles, nel 2013. Le mie amiche più care mi hanno regalato una consultazione con un astrologo per il mio tema natale. Regalo bizzarro che si è rivelato una vera esperienza! Tra le tante cose, Cedric mi ha detto che vivevo una fase di passaggio da “guerriera ad agricoltrice”. Era il mese di Aprile. A settembre il mio disagio a lavoro è esploso, mi sentivo epuisée, scarica, svuotata. Sono andata dal mio medico curante con il quale ho trascorso un’ora e mezza a raccontarmi… ben diverso l’approccio belga da quello italiano. Gli ho chiesto se secondo lui fossi in burn-out. La sua risposta: “No, non ha senso mettere l’etichetta del burn-out. Lei è in un momento di passaggio, da guerriera ad agricoltrice”. Ha usato esattamente le stesse parole dell’astrologo. Dall’astrologia all’allopatia, il messaggio che arrivava era chiaro per me: dare spazio al mio essere femminile… fino a trovare la giusta distanza e far danzare insieme due parti di me che mi definiscono, l’essere guerriera e l’essere agricoltrice. Diventare coach ha segnato questo passaggio. Da Manager a Coach. Dal risultato al processo. Dall’azione alla consapevolezza alla base dell’azione. Dal fare all’essere. Da guerriera a colei che cura la terra.
E il coaching cosa porta nella tua vita?
Ogni volta che affianco un coachee nel suo percorso, mi sento onorata e privilegiata perché assisto ad un meraviglioso spettacolo di trasformazione dove la bellezza della persona emerge in modo potente. Mi commuove essere spettatrice di così tanta bellezza e provo un grande senso di gratitudine.
Negli anni a venire come professionista?
Mi avvicino ai 50 anni e mi sento orgogliosa e fortunata al tempo stesso perché conservo il desiderio come mio personale super potere, lo stesso che mi accendeva quando avevo vent’anni: il desiderio di fare la differenza, di sentirmi parte della soluzione oltre che del problema.
Oggi si parla sempre più di mettere la «persona al centro» delle organizzazioni. Significherebbe disegnare l’organizzazione partendo dalla persona e non il contrario. Tuttavia se osservo il contesto attuale e le emergenze che si impongono in modo sempre più prepotente, nei diversi ambiti a partire dall’ambiente, non posso non pensare che questo paradigma sia già superato. Siamo in ritardo. Abbiamo bisogno di sviluppare un paradigma che vada oltre le individualità! Human Centricity, nuovo Umanesimo. Parole che trovo oggi abusate, diventano slogan che perdono senso e significato. Soprattutto non bastano più…
Già…. Ma di fatto nella maggior parte delle organizzazioni il tema delle persone al centro è attualissimo perché non vissuto …
Si, è vero. Ma partire da questo paradigma oggi, sarebbe come lavorare alla quarta corsia del Grande Raccordo Anulare di Roma, quando di fatto il bisogno è altro, è ripensare la mobilità, è ripensare gli stili di vita. Se lo riportiamo alle organizzazioni, significa investire tempo ed energia su qualcosa che nel mentre è già superato. Di fatto oggi quello che vedo come urgente è «mettere al centro la comunità». Il tema si allarga e abbraccia lo Human.
Ci spieghi meglio…
Dirò una cosa banale ma reale. La pandemia dimostra quanto e come siamo tutti connessi e in che modo le scelte di ognuno hanno impatto sull’altro anche in assenza di intenzionalità. Le emergenze che ci troviamo e che sempre più ci troveremo ad affrontare, non possono e non potranno essere affrontate se non «insieme». Riportare la logica della «comunità al centro» all’interno delle organizzazioni, significa pensare, disegnare l’organizzazione partendo dalla comunità e valutarne l’efficacia sulla base del suo impatto e non dei suoi risultati. Ecco, vorrei portare questa prospettiva nel mio agire il ruolo di Coach per lo sviluppo delle persone e delle organizzazioni.