Il cervello è sempre alla ricerca di modi per risparmiare energia e le abitudini permettono alla nostra mente di ridurre notevolmente i suoi sforzi. Un cervello efficiente richiede meno spazio, risparmia energia, consente all’essere umano di dedicarsi a pensieri di maggior contenuto astratto e tecnologico.
Come studiato al MIT già all’inizio degli anni ’90 con una ricerca sui ratti e i percorsi che facevano in un labirinto a fronte di uno stimolo olfattivo e alimentare (cioccolato), man mano che un dato percorso diventava conosciuto, il topolino diminuiva la sua attività mentale. Questo processo, in cui il cervello traduce una sequenza di azioni in una routine automatica, è noto come chunking ed è alla base della formazione delle ABITUDINI.
Charles Duigg (“Il potere delle abitudini“, TEA) identifica un processo di segnale → routine → gratificazione che chiama il Circolo dell’abitudine. Questo circolo diventa sempre più automatico con il suo ripetersi. Segnale e gratificazione si intrecciano e compare un forte senso di aspettativa (i topolini già salivavano al solo entrare nel labirinto), che arriva a definirsi come bisogno.
Molte abitudini sono enormemente funzionali: sapere già dove troveremo le chiavi dell’auto, quali abbinamenti utilizziamo nel vestirci, quale strada facciamo per andare in ufficio ottimizza l’utilizzo del nostro cervello. Pensate a quanta fatica in più faremmo se dovessimo ogni volta pensare e decidere quanto zucchero vogliamo nel caffè o dov’è più funzionale parcheggiare l’auto sotto casa!
Purtroppo però, mentre molte abitudini ci semplificano la vita, altre diventano disfunzionali. Succede quando rientriamo, più o meno consapevolmente, in un circolo di stimolo-risposta-gratificazione a noi nocivo. Succede, ad esempio, con il cibo, con le relazioni disfunzionali, con le dipendenze (per la parte di queste legata all’abitudine, che è separata dalla parte di dipendenza fisica).
Sfortunatamente, non esiste una procedura standard per cambiare le abitudini che consideriamo nocive per noi in un dato momento.
Sappiamo che un’abitudine non può essere sradicata, ma che deve essere sostituita. E sappiamo che se manteniamo il segnale che la fa scattare e la gratificazione che ne consegue, possiamo modificare come decidiamo di comportarci in risposta.
Questa è la chiave per un lavoro di cambiamento duraturo delle abitudini. È importante sapere che resta comunque a noi la possibilità di decidere come comportarsi.
Questo è un concetto che si ripete spesso nel coaching e che, se ben interiorizzato, ci apre un mondo di possibilità.
Ci vuole allenamento alla consapevolezza. Alcune abitudini sono talmente radicate in noi che abbiamo perso coscienza di cosa le abbia scatenate e che tipo di gratificazione ci forniscono.
Comprendere i segnali e i bisogni che stimolano le nostre abitudini non le farà sparire d’incanto, ma ci offrirà una possibilità per progettare il cambiamento dei modelli.
Ma questo non basta, perché un’abitudine cambi stabilmente, dobbiamo credere che il cambiamento sia possibile. Credere di potercela fare è l’ingrediente che trasforma un circolo dell’abitudine rielaborato in un comportamento permanente. Non solo, serve anche qualcuno che creda in noi “ci sembra vero quando riusciamo a vederlo negli occhi di un’altra persona”
Come può aiutare il coaching nella gestione delle nostre abitudini?
Innanzitutto nell’allenamento alla consapevolezza. Con domande mirate e un lavoro di introspezione, il coachee ha la possibilità di scoprire parti di sé coperti da strati di polvere dell’abitudine. Può approfondire i propri automatismi, la loro origine e la gratificazione ricercata.
Oltre a ciò, attraverso il coaching abbiamo la possibilità di avere un testimone della nostra transizione, qualcuno che ci accompagni nel viaggio e resti al nostro fianco, che riconosca gli sforzi e creda con noi nella possibilità del cambiamento. Che ci ascolti profondamente e senza giudizio, che ci faccia esplorare modi alternativi di pensare alle cose.
Roberta Sala