Agenzia del Demanio: formazione e sviluppo. Intervista a Stefano Lambarelli

3 Giugno 2019 14:53
11 min.

Abbiamo incontrato Stefano Lambarelli che ci ha parlato dell’applicazione di metodologie e strumenti di sviluppo all’interno di un’Agenzia, come quella del Demanio, che ha uno specifico mandato istituzionale e che presenta esigenze organizzative molto peculiari.

Stefano Lambarelli

Stefano Lambarelli è laureato in psicologia, si è occupato nel corso della sua carriera di formazione e sviluppo organizzativo prima nell’ambito delle società del gruppo Finsiel e successivamente a partire dal 2001 come responsabile nell’ambito dell’Agenzia del Demanio.  Ha recentemente pubblicato in maniera indipendente due libri il primo sulla comunicazione interpersonale (La Comunicazione Interpersonale. Le relazioni sociali dal punto di vista di uno psicologo evoluzionista, 2016) e il secondo sul modello evoluzionistico delle scienze sociali applicato alla comprensione della nostra psicologia e comportamento (La condizione umana. Dove ci ha portato l’evoluzione – Vol. 1 L’animale sociobiologico, 2019).

 

Partiamo dall’Agenzia del Demanio. Ormai sono tanti anni che lavori lì, che cosa ci puoi dire? Di che cosa si occupa l’Agenzia?
Sì, sono diversi anni, quasi 20 se consideriamo il primo periodo in cui ero ancora un consulente che lavorava per la messa in piedi dell’Agenzia, prima ancora di diventarne un dirigente, responsabile dello sviluppo organizzativo e della formazione per tutto questo periodo con varie tipologie di incarichi.  Piuttosto che parlare di cosa fa l’Agenzia, che è ampiamente illustrato sul nostro sito Internet, forse è più interessante parlare, brevemente, di quella che possiamo considerare la sfida maggiore che ha dovuto affrontare in relazione ai temi manageriali.
L’Agenzia del Demanio nasceva da un progetto del secolo scorso (1999) di trasformazione dei bracci operativi ministeriali in Agenzie Fiscali con il fine di avere una pubblica amministrazione più efficiente ed efficace orientata alla logica di tipo aziendale/privatistico. In particolare nel 2003 l’Agenzia è trasformata in Ente Pubblico Economico completando questo percorso.
Dal punto di vista delle risorse umane ci trovavamo quindi con personale proveniente dalla pubblica amministrazione a dover implementare un modello organizzativo e una cultura ispirata ai criteri di meritocrazia e di capacità manageriale piuttosto carenti, soprattutto venti anni fa, nel panorama della pubblica amministrazione.
La sfida è stata dura, ma alla fine, c’è stato un profondo cambiamento.  In questo ambito la formazione e le iniziative di sviluppo hanno giocato un ruolo importante, insieme alla adozione di procedure e strumenti di carattere innovativo come il sistema di gestione delle prestazioni adottato.

Quali sono state le difficoltà maggiori in questo percorso di sviluppo?
Difficile rispondere in breve. Mi concentro su una che secondo me è quella più generale nell’ambito di processi di Change Management, ovvero di trasformazione organizzativa e culturale: la coerenza, o meglio, se la guardiamo dal punto di vista delle difficoltà, l’incoerenza.  Ad esempio per molti anni abbiamo fatto corsi di formazione manageriale in cui si promuovevano alcuni tipi di comportamenti, quelli soliti di qualsiasi modello manageriale in senso moderno.
Tuttavia anche a fronte di comportamenti palesemente in contrasto con questi, non seguivano richiami o penalizzazioni, perlomeno non in maniera sistematica. Talvolta addirittura, di fatto, sono stati messi in atto comportamenti opposti da persone che godevano molta visibilità.
Delle volte, quando si lavorava con i capi intermedi, il cosiddetto middle management, dove l’adesione a livello di principio era più immediata, veniva lamentata l’impossibilità “ambientale” di mettere in atto tali comportamenti.
Un principio semplice per l’efficacia di qualsiasi azione è che si sappia come fare, che si voglia farlo e che ci siano le condizioni per farlo. La formazione adempie al primo aspetto, ma sugli altri due, il volerlo (avere interesse a farlo) e il poterlo fare, ci sono sempre margini di miglioramento, soprattutto quando si vuole promuovere un cambiamento culturale in una organizzazione complessa.  Detto ciò, tuttavia, se ci concentriamo sulla bottiglia mezza piena, le cose sono migliorate moltissimo rispetto all’inizio di questa avventura anche se, naturalmente, c’è sempre spazio per il miglioramento.

Ritiene quindi che la formazione abbia svolto un ruolo importante in questo risultato?
Senza dubbio, è una delle leve a disposizione, ma da sola è non è sufficiente.  Dipende poi anche dal tipo di formazione.
Parlando della formazione manageriale, per molto tempo ci siamo mossi utilizzando le modalità tradizionali: lezione frontale, simulazioni, role playing, ecc.  Ciò è stato utile all’inizio anche per condividere valori e modi di vedere in una popolazione aziendale molto variegata con provenienze ed esperienze diversificate.
Tuttavia ad un certo punto è diventato evidente che tale tipologia di formazione non era più sufficiente per promuovere il cambiamento di cui avevamo bisogno. È lì che abbiamo cominciato ad utilizzare il coaching sia per i responsabili di struttura che per i capi intermedi. Io stesso, insieme ad altri colleghi, mi sono sottoposto ad un training per coach, in modo da conoscere meglio la metodologia.

Quali sono stati i modelli adottati, in quali contesti e con quali risultati?
Abbiamo presentato il coaching come una opportunità per ciascuno di lavorare sui propri punti da sviluppare in relazione al nostro modello manageriale. Quindi ogni volta l’intervento era preceduto da una fase di valutazione, talvolta gestita da noi centralmente, attraverso questionari, ma più spesso attraverso i primi incontri tra coach e risorsa.
Come dicevo abbiamo utilizzato tale metodologia sia con i capi di struttura, ovvero i dirigenti a capo delle strutture territoriali e centrali, e anche con i capi intermedi. In alcuni casi anche per risorse che erano considerate di alto potenziale ma che ancora non occupavano posizioni di responsabilità.
Per quanto riguarda i risultati bisogna rilevare innanzi tutto un coinvolgimento e un gradimento di questi interventi maggiore ad altre iniziative più tradizionali.  Spesso al termine del ciclo di incontri, abbiamo ricevuto richieste di continuare.
In termini di risultati più generali, sull’efficacia degli interventi, i risultati sono difficili da valutare ma la sensazione è che ci sia una generale maggiore sensibilizzazione a favore dei comportamenti manageriali corretti.

Vorremo congedarci chiedendole un consiglio rivolto a chi non ha ancora utilizzato il coaching in azienda.
Come ho già osservato è importante la coerenza. L’intervento di coach deve andare di pari passo con altri interventi di natura organizzativa e con la sponsorship dei vertici in maniera tale che si crei un ambiente che favorisca la sperimentazione e la messa in atto di quello che viene elaborato in fase di coaching. In caso contrario, pur potendo raggiungere buoni risultati con le risorse più motivate all’autosviluppo,  l’effetto risulta sensibilmente depotenziato.