A confronto con Davide Etzi, coach e psicologo del lavoro

23 Ottobre 2019 09:56
18 min.

Un incontro fruttuoso e professionalmente stimolante quello con il coach, psicologo del lavoro ed economista aziendale, Davide Etzi.
Un’intervista che ci ha consentito di affrontare temi quali lo sviluppo strategico nelle  Risorse Umane, di parlare di equilibrio e benessere della persona, della digital transformation e naturalmente anche di coaching.

Davide lei è un coach ma è anche esperto di sviluppo strategico. Cosa nota di più rilevante nelle aziende a proposito di sviluppo strategico, in particolare nelle direzioni delle Risorse Umane? C’è una linea comune o ci sono elementi diversi a seconda dei mercati o delle dimensioni aziendali?
Quella che ho definito la mia “doppia anima”, da Coach e Psicologo ma anche da Economista aziendale, mi ha sempre aiutato, ed aiuta tuttora, a vedere i fenomeni aziendali trasversalmente nelle varie aree funzionali; in particolare, il lavoro svolto nelle aree HR, in una prima fase della mia carriera come Strategic Planner e Controller poi come Coach e Talent Developer, mi ha permesso di verificare come la funzione Risorse Umane sia in profonda evoluzione e come si stia concentrando su azioni mirate per rimettere le persone al centro. Un importante fenomeno parallelo e reciprocamente coadiuvante in questa fase, sono i processi di Digital Transformation in atto, che vedono la ridefinizione dei processi in azienda, nuovi equilibri ed ingresso di figure con job title e competenze impensabili fino a cinque anni fa. Va da sé che la funzione HR, si veda direttamente coinvolta, non più come mera funzione di staff, o anche come “semplice” business partner, bensì come leader del cambiamento culturale e tecnologico in atto. Cambiamento culturale perché le persone oggi vogliono di più, hanno nuovi bisogni e desideri e sono più informate, hanno paradossalmente più possibilità; perché se da un lato è vero che il cambiamento in atto sta tagliando i posti di lavoro e creando nuovi profili professionali, rendendo il mercato “turbolento”, più fluido e meno stabile rispetto al passato, è anche vero che come conseguenza diretta, le aziende sono portate ad investire sempre di più nelle politiche di employer branding per trattenere i talenti, faticosamente acquisiti nel mercato complesso; e nei processi welfare management per garantire benessere psico-socio-economico.

Il Rapporto Coop 2019 “Economia, consumi e stili di vita degli italiani di oggi” presentato a settembre parla di insicurezze diffuse tra gli italiani e la qualità del lavoro genera molte frustrazioni, non sempre tutte vere nelle mansioni più elevate. Come psicologo del lavoro cosa ne pensa? Che percezione ha lei delle sfide più importanti per le persone che lavorano?

Nell’attuale contesto dove informazioni, stili di vita e possibilità “sulla carta” sono alla portata di tutti, il lavoratore deve affrontare ulteriori sfide emotive che un tempo non erano contemplate nella sfera professionale, e chi si occupa di persone all’interno delle organizzazioni deve fare i conti anche con questi aspetti, legati al benessere socio-emotivo e al welfare.
Sta cambiando il paradigma, e si sta abbandonando via via quello medico-ortopedico della “pezza” al malessere, per abbracciarne uno nuovo e probabilmente più funzionale che definiremo bio-psico-sociale, che mette, finalmente, in luce, l’equilibrio ed il benessere della persona e l’armonia tra l’individuo ed il contesto organizzato in cui opera, vive e crea relazioni.
A corollario di tutto questo abbiamo tuttavia una complessità aumentata vertiginosamente, un mondo cosiddetto “VUCA” (Volatile, Incerto, Complesso e Ambiguo), dove gli individui e anche le organizzazioni faticano nello “stare al passo” con i cambiamenti, ma soprattutto faticano nel mettere in campo le strategie di coping che supportano “lo stare” in un mondo così diverso fino a solo qualche anno fa.
Non è raro che i clienti in un percorso di coaching formulino l’obiettivo di “imparare a stare”, gestendo le emozioni negative che scaturiscono da scelte strategiche aziendali, cambi repentini nella governance o nel ruolo, mansioni o posizioni organizzative; fenomeni ormai estremante frequenti.
La vera sfida per individui e organizzazioni sarà quella di comprendere che l’aspettativa dal sistema non è più funzionale, ma il punto di vista dovrebbe spostarsi sul contributo che ogni singolo individuo potrà dare al sistema in cui vive. Spostare, quindi, la visione esistenziale dalla cultura della aspettativa a quella della responsabilità individuale e della negoziazione relazionale, col fine sociale, e quindi del benessere collettivo. La strada è lunga, ma credo che in qualche modo si stia cominciando a percorrerla.

Nella sua pluriennale attività di coach persegue costantemente quella che ha definito “una forte alleanza con i coachee”. Di cosa è fatta, da dove passa questa alleanza?
Forte alleanza con i coachee”, è una frase che probabilmente avete trovato in giro per la rete, e sono felice di vederla riproposta in questa intervista; è una frase, ma soprattutto un sostantivo: “Alleanza”, che caratterizza il processo di coaching; aggiunta all’aggettivo: “forte”, caratterizza anche il mio processo di coaching e la mia modalità di stare nella relazione professionale con i clienti. Il processo di coaching è fatto, a mio avviso, di tre ingredienti base:
• l’ascolto attivo con totale sospensione del giudizio;
• il feedback autentico basato su fatti e non solo su opinioni;
• l’empatia e l’accettazione incondizionata del sistema di rappresentazioni della realtà del coachee.

A tutto questo fa da collante la forte alleanza, appunto; ovvero il genuino interesse da parte del coach nel raggiungimento dell’obiettivo del coachee, accompagnata dalla autentica consapevolezza che il coachee possegga tutte le risorse adeguate che gli permettano di raggiungere l’obiettivo desiderato.
Perché questo? Perché sull’obiettivo desiderato, e sulla concreta possibilità di raggiungimento, viene fatto un lavoro antecedente, per fare in modo che sia “ecologico e sostenibile”, ovvero razionalmente raggiungibile e smart (Specifico, misurabile, realizzabile, rilevante e time-based, ragionevolmente collocabile in un asse temporale).
In sostanza forte alleanza significa impegno: forte impegno del coach con gli impegni del coachee. Non riuscirei ad immaginare altre modalità di lavoro con i miei clienti.

Qual è, secondo Lei, la fase più interessante dei percorsi di coaching?
Facciamo una premessa: il coaching è focalizzato sulla possibilità di opportunità future, non sugli errori del passato, tuttavia errori e contenuti del passato vengono portati in sessione per analizzare il modello comportamentale che ha probabilmente impedito di raggiungere alcuni obiettivi desiderati.
In un’alta percentuale di casi, i clienti, arrivano in sessione desiderosi di lavorare su un obiettivo delineato. Accettare la sfida, affiancarli efficacemente nel percorso e nelle tappe previste, creando quella “forte alleanza”, diventa una parte importante del nostro lavoro.
Succede spesso, in altra casistica, che la richiesta parta da chi non ha ancora un obiettivo e desidera che sia il lavoro di coaching a fare chiarezza. In questo caso, anch’esso frequente, c’è una situazione di partenza che crea forte disagio da cui si vuole uscire.
Quello che tengo spesso a precisare in sessione è che uscire dalla situazione di disagio non può essere l’obiettivo di coaching, ma solo una tappa intermedia di un disegno più generale.
Se si crea resistenza nei confronti di una situazione o di uno stato che non viene accettato, si genera tensione e si blocca la possibilità di cambiamento, continuando a perpetuare lo stato indesiderato.
Generalmente questi momenti sono caratterizzati da autocritica e forte giudizio su se stessi.
La conseguenza è che si rimane intrappolati in esperienze passate di sofferenza e impedimento ad esplorare nuove opportunità per il nostro futuro.
Una soluzione che passa solo dall’accettazione, di ciò che siamo, di ciò che abbiamo, di dove ci troviamo.
Ecco, quando in un percorso di coaching, si arriva quel punto di consapevolezza, della auto-accettazione incondizionata di chi siamo, per me comincia la magìa, ed è esattamente quello, il momento più interessante di un percorso di coaching. Da quel momento in poi comincia il vero cambiamento.

Come si trova col digital coaching e a lavorare da remoto?
Il digital coaching è stata per me una nuova e grande sfida, una situazione che fino a qualche anno prima non avrei potuto immaginare.
Mi sono approcciato al nuovo contesto di Doyoucoach titubante e quasi timoroso di non poter offrire la stessa qualità ed efficacia offerta in una sessione dal vivo, in studio.
Poi sono accadute due cose: la prima è stata quella di entrare in contatto con il team di professionisti di Doyoucoach, con cui abbiamo condiviso visione ed obiettivi, nonché best practices e metodologie di lavoro digitale; la seconda (quando si dice “il caso”, è che proprio in quel periodo si teneva a Torino la Conferenza nazionale di ICF (International Coach Federation), una due giorni dove i coach di tutta Italia si riuniscono per condividere e confrontarsi sullo stato dell’arte della Professione e sulle prospettive future. Il tema perno di tutta la Conferenza fu proprio “Il Coaching nell’era digitale”.
Illuminante l’incontro con Damian Goldvarg, da Los Angeles, Past President di ICF Global, autore di uno dei libri che più hanno supportato il mio percorso di certificazione come PCC (Professional Certified Coach), che ho avuto occasione di incontrare a cena a Milano nei giorni successivi alla conferenza, grazie a Raquel Guarnieri, Past President di ICF Italia, mia mentor Coach, nonché socia di Doyoucoach; per scoprire ed apprezzare che Damian dagli Stati Uniti, seguiva via digitale clienti da tutte le parti del pianeta.
L’incontro col team di Doyoucoach, la conferenza e il follow-up con Damian Goldvarg, hanno stimolato e supportato l’apertura di un mio mindset digitale per le sessioni, al punto tale da poter asserire di trovarmi completamente a mio agio nel lavoro da remoto, con clienti da qualsiasi città o luogo del territorio, al punto da farmi pensare per certi versi, che le sessioni potessero essere perfino più efficaci, in termini di focalizzazione sulle attività da portare avanti.
Sebbene possa essere vero che alcuni aspetti della comunicazione non verbale, paraverbale e prossemica vengano in qualche modo sentiti con meno énfasi, altri aspetti sull’efficacia del processo e sulla focalizzazione sull’obiettivo/risultato possono essere perfino potenziati.
Un altro aspetto interessante delle sessioni da remoto è che le agende vengono in qualche modo rispettate con una percentuale più alta rispetto alle sessioni dal vivo in studio.
Non ultimo, da economista non posso non rilevare che tempi e costi relativi agli spostamenti vengono completamente abbattuti, generando efficacia ed efficienza per tutti gli attori coinvolti nel processo.
Credo proprio che le sessioni in digitale siano uno degli elementi caratterizzanti nel panorama del coaching, per il futuro.